Michele De Lucchi

4 novembre 2010

© Giovanni Gastel

Nel suo intervento agli stati generali nel luglio 2009 ha interpretato l’Expo come un contributo alla trasformazione di Milano in un nuovo modello di produzione e consumo di beni e di idee. Ci illustra i punti salienti di questo nuovo modello e le ragioni che l’hanno ispirato?

Tutto quello che tocchiamo e mangiamo è prima passato per le mani dell’industria e la società di oggi è fatta da chi produce, chi distribuisce, chi vende, chi compra, chi consuma.
Milano può realizzare un modello alternativo al sistema industriale per la produzione, distribuzione,  vendita e consumo che sia anche un modello architettonico di sviluppo urbano.
Il tema dell’agricoltura e dell’alimentazione è quanto mai adatto a questo scopo perché esemplifica magistralmente il processo, le difficoltà e le opportunità del sistema industriale che oggi, per la crisi economica, etica e di coscienza sociale, deve essere rinnovato.

Si tratta di una idea forte che intercetta i bisogni della nostra società, soprattutto delle nuove generazioni. A un anno di distanza, quando mancano poco più di quattro anni alla manifestazione, come si può intervenire concretamente?

Milano può organizzare piccoli nuclei di produzione completa di ortofrutticoltura e allevamento che possono essere realizzati in piccola scala, in periferia e alle porte della città: sono parchi agricoli di piccole dimensioni (8/10 ettari) dove viene sviluppata una produzione attenta, consapevole, di qualità che viene distribuita nei mercati comunali opportunamente riqualificati, valorizzati, reinventati.
La sperimentazione, oltre che per il carattere innovativo del coinvolgimento sociale, ha il valore di riportare l’attenzione alla piccola imprenditoria di coltivatori/allevatori e di commercianti che controllano l’intero ciclo produttivo e distributivo a favore di un contenuto ricarico dei prezzi, di un uso proporzionato di chimica e concimi, di una vigile programmazione delle quantità, di una riduzione degli sprechi.

Questo sistema avrebbe anche il vantaggio di riavvicinare le persone ad una cultura del fare pratico, legato alla terra, che si è da tempo perso e che invece porta con sé valori di rispetto verso i tempi (tempi di crescita di un bene) e i luoghi (necessità di prendersi cura della terra e dei suoi meccanismi di rigenerazione) che sono importanti anche nella comprensione dei ritmi di sviluppo di una società più equilibrata.

La dicotomia tra produzione industriale di massa e produzione artigianale affonda le radici nella rivoluzione industriale e da allora accompagna l’evolversi della civiltà occidentale. Che armi possono opporre il contadino o l’artigiano di fronte ai flussi globali delle merci e dei capitali?

Con la piccola imprenditoria, soprattutto, si rivaluta la figura dell’artigiano riferito a chi fa un lavoro con impegno personale per una gratificazione emotiva (Richard Sennet), unica soluzione per dare significato attuale, moderno e contemporaneo alla ricerca del profitto.
Mai come oggi – forse per la recessione economica, forse per una generale crisi di identità delle grandi corporazioni internazionali, forse per alcuni temi e ricerche pubblicati di recente -, è evidente la dicotomia tra industria e artigianato, tra grande produzione potenzialmente illimitata e piccola produzione per una gestione attenta ed equilibrata.

L’artigianato ha lo scopo di insegnare all’industria i suoi valori di cura verso il prodotto: è utopia, ma sarebbe veramente interessante vedere la trasposizione della bellezza, della raffinatezza e dello spirito artigianale nella produzione dell’industria. L’industria è etica nel momento in cui mette a disposizione un bene a una grande quantità di persone; ma perde di etica nel momento in cui produce omologazione e perdita di personalità. La scelta di un artefatto implica un grande coinvolgimento emotivo, spesso trascurato dagli utenti in quanto vissuto come utilitaristico e non  come espressione nel tempo e verso l’intorno. L’artigianato non riuscirà a plasmare totalmente l’industria, ma come spesso è accaduto alle utopie nella storia, l’artigianato potrà far correre l’industria lungo i nuovi binari virtuosi.

Le professioni liberali nascono con l’affrancamento dalle attività manuali e sono tradizionalmente indipendenti e complementari nei confronti dei processi di produzione standardizzati. Architettura e disegno industriale si evolveranno più verso la manualità o verso l’industria?

L’industria tradizionale punta al grande numero, inevitabilmente, per convenzione e per ingordigia probabilmente. Non c’è dubbio che non c’è  freno al profitto  ed è sempre stato motivo di grande orgoglio dimostrare che è possibile produrre tanto, tantissimo, sempre più e a costi sempre più bassi, per stock giganteschi e alla fine inevitabili discount per svuotare i magazzini.
L’artigianato, quello da far nascere, ha in sé la prerogativa di puntare all’equilibrio, di ricercare la migliore combinazione tra risorse a disposizione e produzione finita per non eccedere nel troppo o nel troppo poco.

L’artigianato deve essere interpretato come un laboratorio di libera sperimentazione produttiva che è molto utile all’industria. Credo che questa dicotomia nella definizione del sistema artigianale e  industriale, andrà sempre più riducendosi, man mano che i due ambienti si toccheranno e si compenetreranno. Si potrebbe prevedere un’industria fatta dell’insieme dei laboratori artigianali più differenti e una filiera artigianale composta di tanti piccoli processi industriali e artigianali che si compensano. Non vedo antitesi, ma progressiva migrazione di una definizione verso l’altra.

Il masterplan dell’expo prevede degli itinerari del sapere nel tessuto urbano milanese che ne valorizzino  le eccellenze e alcuni dei suoi lavori più recenti o tuttora in corso sono architetture per la cultura milanese, in particolare Teatro Parenti, Triennale di Milano e Castello Sforzesco. Ritiene anche lei come la consulta degli architetti che ci sia bisogno di fare sistema tra le diverse istituzioni culturali e di ricerca della città?

Sicuramente sì e ho sempre pensato che l’integrazione sia fondamentale e necessaria per costruire ragioni di efficienza, progresso, innovazione, buon design e buona architettura.

Del resto il contrario della parola integrazione è disintegrazione e questa parola contraria così catastrofica mi porta a pensare proprio che all’integrazione culturale non ci sia alternativa.

Riguardo all’Expo, è estremamente significativa e stimolante e va ammirata l’attività dell’Abbazia di Chiaravalle che da secoli opera in un ideale spirito  di produzione, vendita e consumo locale.
Il modello della fattoria a ciclo completo per la produzione, l’elaborazione e la commercializzazione di prodotti alimentari è la metafora di un nuovo mondo,  dove va premiata con il profitto non la quantità, ma la precisione nella gestione delle risorse e,  insieme,  una concreta opportunità di un nuovo sviluppo  dove la città si integra in modo inedito al suo contado in una prospettiva di un ambiente  più ricco e più abitabile.

Le relazioni commerciali tra parchi agricoli nella cintura della città e mercati comunali nei quartieri urbani ricuce la città con il suo hinterland e favorisce la crescita di una educazione alla coscienza sociale che ha nell’alimentazione il riferimento più diretto alla qualità della vita e al valore del progresso.

Vicinissimo a Milano, il borgo di Chiaravalle trae insegnamenti dalla grande metropoli, organizzando un’offerta culturale all’altezza del modello di vita che propone: spettacoli, conferenze, occasioni di incontro e condivisione che stimolano la vitalità del piccolo centro attraendo anche interessati dall’esterno. Un modello che merita di essere applicato anche a tantissimi altri piccoli centri delle nostre campagne che possono ricalcare, secondo le loro eccellenze, il modello di Chiaravalle, allo scopo di frenare l’onda migratoria che da anni li sta condannando allo spopolamento.

Anche i luoghi della storia e della cultura milanese meritano di essere coinvolti in questa straordinaria prospettiva. Il mondo intero conosce l’Italia e Milano per le sue straordinarie bellezze storiche, ma spesso individua nei suoi percorsi di visita solo alcune di queste, le più celebri. Invece ce ne sono un’infinità di altre, magari conosciute solo all’interno di circuiti dedicati, che possono essere valorizzate se inserite in mappe sensibili alle trasformazioni della  città, che permettono non solo ai turisti ma agli stessi abitanti, di vivere la città ogni volta secondo un’ottica differente, vitale.

Ha mai visitato un’esposizione universale? Se sì, che impressione ne ha tratto?

Ho visitato Siviglia e Hannover e ho visitato Shanghai purtroppo un mese prima dell’inaugurazione. Ne traggo l’idea dell’enorme potenzialità che questo strumento offre indipendentemente dal suo successo commerciale. Anche solo pensando alla quantità di persone che si muovono in queste occasioni si può comprendere il dinamismo che una città ne ricava.

Sono molto attratto dall’idea di un’Expo milanese più sobria e più concentrata a produrre benefici strutturali godibili in tempi più lunghi che non i pochi mesi della manifestazione.

Per quello che conosco, l’impostazione dell’Expo 2015 è ottima e mi auguro che il processo organizzativo e amministrativo non metta a repentaglio quest’ottima formula. Spero soprattutto non venga frustrata l’aspettativa di un’expo istitutivo di infrastrutture forti che favorisca la realizzazione di opere di architettura utili, pratiche, intelligenti e sufficientemente straordinarie da soddisfare l’attenzione che tutto il mondo è disposto a portare verso Milano e la cultura italiana.

Che tipo di esperienza si augura che possa trarre il visitatore dall’expo milanese?

Il tema dell’alimentazione, della sostenibilità, dell’organizzazione sono grandissimi temi che coinvolgeranno l’umanità per molti secoli e per tutto il futuro a venire. Oggi possiamo solamente dare un’indicazione di volontà e di impegno perché abbiamo bisogno di immagini e visioni che ci indichino versioni possibili per il mondo che aspetta le prossime generazioni.

Penso che il design dei prodotti e dell’architettura sia responsabile di elaborare oggi questo nuovo paesaggio con l’etica che le è propria. Parte degli interventi sul paesaggio mi pare che riguardino le vie di transito all’interno del centro e tra centro e periferia: così penso che l’Expo sarà anche un’occasione per far riscoprire le antiche vie di comunicazione. Del resto, paesaggio fa rima con saggio.

Intervista pubblicata su AL 7/8 nel Novembre 2010 Michele De Lucchi x AL